Capitolo 1 – La guerra di Mori: un apparato militare contro Cosa Nostra
Indice dei contenuti
1.1 – La “guerra di Mori”: un apparato militare contro Cosa Nostra
Tra il 1925 e il 1929, il prefetto Cesare Mori venne investito dal regime fascista di pieni poteri per smantellare la mafia siciliana. L’operazione, passata alla storia come la “guerra di Mori”, fu caratterizzata da una strategia repressiva brutale e sistematica.
Migliaia furono gli arresti, i sequestri di beni, i processi lampo e le condanne. Mori impiegò una metodologia militare: cinse d’assedio interi paesi sospettati di ospitare latitanti mafiosi, fece irruzione in abitazioni private, interrogò senza tregua. Si trattava, di fatto, di una sospensione della legalità ordinaria a favore dell’“ordine fascista”.
Ma il successo fu solo parziale. Se da un lato molte famiglie mafiose vennero smantellate e numerosi boss incarcerati o costretti alla fuga, dall’altro sopravvissero — mimetizzati — i cosiddetti “colletti grigi”: funzionari, notabili locali e intermediari politici che costituivano l’ossatura della connivenza tra mafia e istituzioni. Erano loro a garantire continuità al potere mafioso anche nei periodi di massima repressione.
1.2 – Dall’esilio al compromesso: i clan si mimetizzano nel regime
Dopo il pugno di ferro di Mori, Cosa Nostra capì che l’ostilità frontale era suicida. Cominciò allora una lunga fase di mimetizzazione. I clan si ristrutturarono, evitarono scontri diretti e si inserirono nei gangli del sistema fascista, soprattutto attraverso l’adesione formale al Partito Nazionale Fascista di alcuni affiliati.
In molte zone rurali, i mafiosi rimasero i veri gestori dell’ordine, sotto la copertura delle istituzioni locali. La repressione colpiva il vertice visibile, ma lasciava intatto il sistema clientelare che alimentava la mafia: controllo del lavoro bracciantile, estorsione a tappeto, gestione degli appalti agricoli.
Il fascismo, che prometteva “ordine e disciplina”, chiuse spesso un occhio se i mafiosi garantivano quiete sociale e raccolta delle imposte. Il legame fra mafia e potere politico non si spezzò, ma si adattò alle nuove condizioni.
Fonti consultate: archivio storico del Ministero dell’Interno, relazioni parlamentari d’epoca, studi di Salvatore Lupo e John Dickie.
1.3 – La repressione come incubatore: diaspora criminale e migrazioni mafiose
La strategia repressiva avviata da Mori e mantenuta fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale generò un effetto collaterale sottovalutato: la dispersione del personale mafioso. Molti boss e gregari, per evitare la cattura, emigrarono verso l’America Latina e soprattutto negli Stati Uniti, dove trovarono una rete diasporica pronta ad accoglierli.
Così nacque il legame strutturale tra la mafia italiana e quella italoamericana, che avrebbe avuto un ruolo decisivo nei decenni successivi, non solo nel traffico di stupefacenti ma anche nel reinvestimento di capitali sporchi in attività edilizie, portuali e commerciali.
La repressione interna contribuì quindi a internazionalizzare il fenomeno mafioso. Gli Stati Uniti, in particolare, divennero la nuova patria dei clan siciliani, che si integrarono con famiglie criminali già attive, dando vita a un ibrido potente e ben radicato.
Fonti consultate: FBI declassified archives, studi di Claire Sterling e relazioni della Commissione Antimafia (1963-1976).
1.4 – La mafia come infrastruttura: il capitale sociale clandestino
Durante il Ventennio, mentre la retorica ufficiale inneggiava al controllo totale, la mafia costruiva silenziosamente un’infrastruttura parallela: un sistema di mutuo soccorso, protezione, distribuzione delle risorse e mediazione dei conflitti che operava nelle pieghe del controllo fascista.
Questa rete parallela, basata sul capitale sociale e sull’omertà, garantiva ai clan la sopravvivenza anche in un contesto ostile. La mafia non era solo violenza, ma un sistema adattivo, in grado di replicare meccanismi tipici dello Stato – arbitrato, redistribuzione, sicurezza – ma al servizio di interessi privati e criminali.
In questo modo, Cosa Nostra non solo resisteva, ma si preparava alla futura egemonia nel vuoto istituzionale che si sarebbe creato dopo la caduta del regime. Il capitale relazionale accumulato divenne leva per nuovi affari e consenso nei territori, in particolare nelle zone rurali e nei quartieri popolari.
Fonti consultate: Lupo S., “Storia della mafia”, Einaudi; Dickie J., “Cosa Nostra”, Hodder & Stoughton; atti della Commissione Parlamentare Antimafia (1958-1964).
1.5 – Il ritorno degli esiliati: una restaurazione criminale mascherata da liberazione
Con l’arrivo degli Alleati in Sicilia nel 1943, molti mafiosi esiliati negli Stati Uniti tornarono in patria sotto l’ala protettrice delle forze di occupazione. Figure come Calogero Vizzini furono presentate come antifascisti, guadagnandosi la fiducia dei nuovi amministratori militari.
In realtà, il ritorno dei boss costituì una vera e propria restaurazione criminale. Sfruttando l’assenza di strutture statali e il vuoto di potere, i mafiosi si reinsediarono nei territori, spesso ricevendo incarichi ufficiali come sindaci o interpreti per l’AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territories).
Fonti consultate: Servizi segreti OSS, rapporto di Charles Poletti (1943); Salvatore Lupo, “Storia della mafia”.
1.6 – AMGOT e l’ambiguità americana: alleati o incubatori mafiosi?
La gestione del Sud Italia da parte dell’AMGOT fu contraddistinta da ambiguità strutturali. Mentre ufficialmente gli Alleati promuovevano la democratizzazione, nei fatti spesso si appoggiarono a figure con solide connessioni mafiose per garantire stabilità immediata.
Questa scelta, dettata da urgenze militari e dalla necessità di ordine pubblico, gettò le basi per una nuova legittimità della mafia nel dopoguerra. Il compromesso tra sicurezza e legalità favorì un’ibridazione tra Stato e potere criminale che avrebbe avuto effetti duraturi.
Fonti consultate: Relazioni AMGOT, studi di Alfio Caruso e Claire Sterling, documenti CIA desecretati (anni ’90).
1.7 – La tregua armata: mafia e politica nel primo dopoguerra
Nel periodo 1943-1947, l’Italia vive un momento di transizione confusa. La mafia, pur rimanendo in apparenza ai margini del dibattito istituzionale, tesse relazioni sotterranee con i nuovi partiti, in particolare con la Democrazia Cristiana, offrendo consenso elettorale in cambio di impunità e accesso agli appalti della ricostruzione.
È in questo contesto che si delinea la formula dell’intreccio: politica locale + imprenditoria collusa + manovalanza criminale. Un modello che diventerà dominante per i successivi decenni. La tregua armata tra mafia e Stato segna il passaggio dalla violenza come strumento di resistenza alla violenza come leva economica.
Fonti consultate: Atti della Costituente, dossier Confcommercio 1945-47, Commissione Parlamentare Antimafia (1962).
1.8 – L’assassinio di Accursio Miraglia: un segnale trasversale
Nel gennaio 1947, a Sciacca, viene assassinato Accursio Miraglia, sindacalista comunista e figura chiave nel movimento contadino. Il delitto scuote la Sicilia e rivela le connessioni fra interessi agrari, mafia e nuova politica centrista. Il messaggio è chiaro: chi tenta di riorganizzare il fronte popolare viene eliminato fisicamente.
L’omicidio è il primo di una lunga catena, e segna l’inizio di una strategia della tensione condotta non solo con attentati, ma con un calibrato uso del terrore nelle campagne. La mafia si pone come garante della “vecchia” gerarchia sociale, aiutando a spegnere le spinte rivoluzionarie nel Sud Italia.
Fonti consultate: Atti processuali del Tribunale di Sciacca (1947), Rapporto CGIL Sicilia 1947, testimonianze orali raccolte da Danilo Dolci.
1.9 – Portella della Ginestra: la mafia come braccio armato del blocco antisocialista
Il 1° maggio 1947, mentre i contadini festeggiano la vittoria del fronte popolare in Sicilia, a Portella della Ginestra si consuma una strage: undici morti e decine di feriti sotto i colpi dei banditi di Salvatore Giuliano. Ma l’attacco ha mandanti più sofisticati: la mafia, in alleanza con settori dei servizi e degli agrari, organizza l’eccidio per lanciare un monito alle masse popolari e riformiste.
La strage segna una svolta. La democrazia italiana nascente è condizionata fin dall’inizio da poteri occulti che usano la violenza per influenzare l’indirizzo politico. Portella è la prima grande “strage di Stato” nella storia repubblicana, e introduce la logica dell’intimidazione sistemica nel rapporto fra mafia, politica e Stato.
Fonti consultate: Atti della Commissione Parlamentare Antimafia, verbali del processo Viterbo (1951), studi di G. Casarrubea e M. Pepino.
1.10 – La rete dei Giuliano: banditismo e intelligence
Il banditismo di Salvatore Giuliano in Sicilia non fu un semplice fenomeno criminale ma un dispositivo ibrido in cui si intrecciavano interessi mafiosi, esigenze politiche e infiltrazioni dei servizi segreti. Giuliano non era solo un bandito: era un simbolo costruito per delegittimare il fronte progressista e favorire lo status quo.
Numerosi documenti emersi in seguito dimostrano che attorno al gruppo Giuliano gravitavano agenti dell’OSS prima, e del nascente SIFAR poi. Il banditismo diventava così un elemento utile al controllo politico del territorio, un’arma psicologica usata per giustificare misure repressive e per condizionare l’orientamento dell’opinione pubblica.
Fonti consultate: Archivio Centrale dello Stato – fascicoli sul banditismo, dossier declassificati OSS/CIA, analisi di Giuseppe Casarrubea.
Fonti e approfondimenti
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