Fino all’ultimo sangue

Capitolo 6 – «Fino all’ultimo sangue»

Il sesto capitolo di questo viaggio nella storia della mafia segna una svolta drammatica e cruenta. Dopo le fasi di consolidamento, mimetizzazione e penetrazione nel tessuto economico e politico, Cosa Nostra esplode in una spirale di violenza senza precedenti. “Fino all’ultimo sangue” racconta delle guerre interne per il controllo del potere, della sanguinosa ascesa dei Corleonesi, degli omicidi eccellenti che hanno insanguinato le strade di Palermo e scioccato la coscienza nazionale. È il momento in cui la mafia, pur di mantenere il potere, sfida apertamente lo Stato, dichiarando guerra con attentati, stragi e terrore.

Questo capitolo prosegue idealmente la narrazione iniziata con “Le mani sul mattone”, dove si analizzavano le strategie di infiltrazione economica. Ora il focus si sposta sulle dinamiche interne e sulla brutale competizione fra cosche, in una sequenza che prepara il terreno per l’avvento di nuovi strumenti legislativi e di repressione.

Struttura del capitolo

  • Le guerre tra clan per il controllo del potere mafioso
  • I Corleonesi: strategia e ascesa
  • Le faide e gli omicidi eccellenti
  • Palermo e l’epicentro della violenza
  • Il ruolo delle famiglie mafiose nelle guerre interne
  • Le conseguenze politiche e sociali

Nei prossimi paragrafi analizzeremo, uno ad uno, questi snodi fondamentali della lotta interna alla mafia, con un linguaggio investigativo e narrativo, seguendo il filo degli eventi documentati e delle loro ripercussioni storiche.

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Le guerre tra clan per il controllo del potere mafioso

Un equilibrio infranto nel sangue

Negli anni Settanta e Ottanta, la Sicilia fu teatro di una delle fasi più cruente della storia di Cosa Nostra: le guerre tra clan per la supremazia assoluta. Dopo decenni di equilibrio instabile tra famiglie mafiose che si spartivano affari, territori e influenze politiche, la situazione precipitò in un conflitto che sconvolse l’intera organizzazione. La tensione, mai del tutto sopita, esplose con ferocia, trasformando la Sicilia in un campo di battaglia. La posta in gioco era il comando, la gestione dei traffici internazionali di droga, e soprattutto l’egemonia assoluta sull’organizzazione criminale.

A scatenare il conflitto furono gli attriti tra le famiglie storiche palermitane e una nuova forza emergente: i Corleonesi. Questi ultimi, guidati da Luciano Leggio e poi da Totò Riina e Bernardo Provenzano, misero in atto una strategia di conquista del potere fondata sulla violenza sistematica. Non più negoziazioni, ma annientamento fisico dei rivali. Così iniziarono gli omicidi di capi famiglia, affiliati, e persino semplici sospetti di infedeltà. I cadaveri si moltiplicavano nelle campagne e nelle strade cittadine. Le cosche storiche, incapaci di rispondere con la stessa brutalità, furono via via eliminate o costrette alla fuga.

Questa guerra intestina, che vide Palermo come epicentro, rivelò la trasformazione profonda della mafia. Non più un’alleanza tra pari, ma un’organizzazione piramidale sotto il controllo di un vertice assoluto. La strategia militare adottata dai Corleonesi cambiò per sempre il volto di Cosa Nostra, e le sue ripercussioni sarebbero state devastanti anche per la società civile e le istituzioni italiane.

I Corleonesi: strategia e ascesa

Dal cuore della Sicilia alla conquista di Cosa Nostra

I Corleonesi rappresentano il caso più emblematico di una trasformazione strutturale all’interno della mafia. Provenienti da Corleone, un piccolo centro agricolo dell’entroterra siciliano, questi uomini seppero imporsi come nuova forza egemone nell’universo mafioso. Il primo artefice di questa scalata fu Luciano Leggio, boss spietato e carismatico, che seppe costruire attorno a sé un gruppo di uomini assolutamente leali e determinati. Fu lui a gettare le basi per l’ascesa dei suoi successori: Salvatore Riina e Bernardo Provenzano.

La loro strategia si fondava su tre direttrici principali: eliminazione sistematica degli avversari, infiltrazione nelle istituzioni e nei centri di potere economico, e costruzione di un sistema interno basato su segretezza e ferrea disciplina. I Corleonesi non ambivano a convivere con le altre famiglie mafiose, bensì a soggiogarle. La loro ascesa fu scandita da una lunga serie di omicidi, spesso spettacolari e brutali, che eliminarono uno dopo l’altro i boss storici delle famiglie palermitane.

Ciò che rese i Corleonesi invincibili per decenni fu la loro capacità di controllare non solo la violenza, ma anche l’economia e la politica. Attraverso prestanome, appalti pubblici, e complicità politiche, Riina e Provenzano riuscirono a trasformare una piccola cosca rurale nel vertice decisionale di Cosa Nostra. La Cupola, un tempo organo di mediazione, diventò un semplice strumento nelle mani di chi sapeva terrorizzare e uccidere senza esitazione.

Il dominio dei Corleonesi segnò la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova stagione criminale in cui lo Stato sarebbe stato costretto a rispondere con leggi eccezionali, nuovi strumenti investigativi e una rinnovata consapevolezza del pericolo rappresentato da un’organizzazione che si faceva Stato nello Stato.

Le faide e gli omicidi eccellenti

Il sangue dei giusti e l’ascesa del terrore

Le guerre interne di mafia non si limitarono a regolamenti di conti tra boss e affiliati. L’ascesa dei Corleonesi fu accompagnata da una lunga scia di sangue che colpì anche uomini delle istituzioni, giornalisti, politici e magistrati. Omicidi eccellenti che avevano un chiaro obiettivo: terrorizzare, intimidire, annientare ogni forma di opposizione. La faida divenne strategia, il terrore si trasformò in metodo per consolidare il potere. Nessuno poteva ritenersi al sicuro.

Tra gli episodi più emblematici si ricorda l’assassinio del generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso con la moglie a Palermo nel 1982. Il suo omicidio rappresentò un colpo durissimo per lo Stato, che aveva appena affidato all’eroe dell’antiterrorismo la guida della lotta contro la mafia in Sicilia. Pochi anni dopo, la stessa sorte toccò a Pio La Torre e a Rocco Chinnici. Le stragi del ’92, con gli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, segnarono il culmine di questa strategia criminale.

La scelta dei bersagli non era casuale. Ogni omicidio portava un messaggio preciso: nessuno doveva sentirsi intoccabile. I mafiosi agivano con efferatezza, ma anche con calcolo. Le faide, in questo senso, rappresentavano un doppio strumento: eliminare i rivali e inviare segnali chiari allo Stato. Questo approccio destabilizzò profondamente l’opinione pubblica e innescò una nuova stagione di mobilitazione civile, culminata nelle manifestazioni popolari successive alle stragi di Capaci e via D’Amelio.

In questa fase, Cosa Nostra ruppe il patto di invisibilità che l’aveva sempre caratterizzata, scegliendo invece la visibilità mediatica della violenza. Una decisione che ne avrebbe accelerato la caduta, ma che nel breve termine consolidò il dominio assoluto dei Corleonesi sull’intera organizzazione.

Palermo e l’epicentro della violenza

La città assediata dal terrore mafioso

Durante gli anni più bui della guerra interna a Cosa Nostra, Palermo fu teatro e simbolo di una violenza senza precedenti. La capitale siciliana, centro nevralgico della mafia storica, fu trasformata dai Corleonesi in un campo di battaglia, dove l’odore del sangue si mescolava all’indifferenza dei palazzi istituzionali e alla paura della popolazione. La città, già segnata da una povertà diffusa e da squilibri sociali profondi, divenne l’epicentro della strategia del terrore.

Qui si consumarono le esecuzioni più efferate, gli attentati più spettacolari, e le intimidazioni più evidenti. Interi quartieri furono soggiogati da una presenza mafiosa capillare, dove il silenzio era la norma e la denuncia un atto eroico quanto suicida. Gli omicidi si susseguivano a ritmo serrato, tanto da far parlare la stampa internazionale di Palermo come della “Beirut d’Europa”. Le immagini di cadaveri riversi nelle strade, spesso lasciati come monito, divennero quotidiane.

Non era solo una guerra tra clan: era una sfida aperta allo Stato, una prova di forza volta a dimostrare che nessun potere legale poteva fermare la nuova mafia. Le strade di Palermo raccontavano un dolore collettivo, ma anche la resistenza di una parte della società civile. Associazioni, comitati, parroci e insegnanti iniziarono a rompere il muro dell’omertà, offrendo il primo argine simbolico alla barbarie.

Palermo, nel suo martirio, divenne laboratorio di repressione e speranza. Qui si rafforzarono le strutture investigative, nacquero nuove strategie legislative e, soprattutto, maturò una coscienza collettiva pronta a dire no alla mafia. Ma in quegli anni, la città pagò un prezzo altissimo, diventando l’emblema stesso del potere criminale in azione.

Il ruolo delle famiglie mafiose nelle guerre interne

Tra alleanze, tradimenti e vendette

La guerra intestina che sconvolse Cosa Nostra fu anche una guerra di famiglie, nel senso più stretto e sanguinoso del termine. Ogni cosca, ogni mandamento, fu costretto a scegliere da che parte stare: con i Corleonesi o contro. Le famiglie storiche, come i Bontate, gli Inzerillo, i Badalamenti, furono tra le prime a pagare il prezzo della loro resistenza al nuovo ordine imposto da Riina e Provenzano. Molti dei loro capi furono eliminati, altri costretti all’esilio negli Stati Uniti o in Sud America.

Le guerre interne non furono mai casuali, ma il risultato di una lucida strategia di dominio. I Corleonesi seppero approfittare delle rivalità latenti tra famiglie, stringendo alleanze temporanee e fomentando divisioni. Alcune cosche, come i Graviano o i Brusca, furono cooptate con promesse di potere e denaro, diventando colonne portanti della nuova gerarchia criminale. Altre, come i Cuntrera-Caruana, preferirono spostare i propri interessi all’estero per evitare lo sterminio.

La Cupola, che un tempo era espressione corale dell’equilibrio tra famiglie, fu svuotata di ogni funzione collegiale. Tutto si decise nella cerchia ristretta del comando corleonese. La logica dell’omertà venne sostituita da quella della paura. E laddove un tempo vi erano relazioni stabili tra famiglie, subentrarono il sospetto e il terrore di tradimenti improvvisi.

Questa fase di repressione interna creò una nuova geografia mafiosa, ridisegnando assetti e territori. La violenza, lungi dall’essere fine a sé stessa, fu strumento di controllo capillare. Le famiglie superstiti, piegate o assoggettate, divennero terminali di un potere centralizzato, in un sistema criminale che somigliava sempre più a uno stato parallelo fondato sul sangue e sul silenzio.

Le conseguenze politiche e sociali

Quando la mafia sfida lo Stato

Le guerre intestine e la strategia del terrore adottata da Cosa Nostra non furono prive di conseguenze per la società italiana. Anzi, gli anni Ottanta e Novanta segnarono un punto di svolta drammatico: lo Stato fu costretto ad abbandonare l’indifferenza e l’ambiguità, per affrontare apertamente una minaccia che non era più sommersa. La morte di magistrati, agenti, politici e semplici cittadini impose un cambio di passo nella politica e nella legislazione antimafia.

Una delle prime conseguenze fu l’approvazione di leggi eccezionali, come la Rognoni-La Torre, che introdusse il reato di associazione mafiosa e permise la confisca dei beni. La pressione dell’opinione pubblica spinse anche alla creazione di strutture investigative più efficaci, come la Direzione Investigativa Antimafia (DIA) e la Direzione Nazionale Antimafia (DNA). Inoltre, la figura del collaboratore di giustizia – il “pentito” – diventò centrale: le confessioni di uomini come Tommaso Buscetta cambiarono per sempre la conoscenza della struttura mafiosa.

Sul piano sociale, la reazione civile fu potente. Le stragi del ’92 diedero vita a un vero e proprio risveglio collettivo, specialmente tra i giovani. Nacquero movimenti, associazioni, scuole di legalità. Palermo divenne il simbolo non solo del dolore, ma anche della rinascita civile. Tuttavia, la paura non scomparve. Molti continuarono a vivere nell’ombra, sotto minaccia, tra ricatti e silenzi.

La sfida lanciata dai Corleonesi allo Stato accelerò la fine della loro egemonia. Ma la mafia, come un virus, mutò, si adattò, cambiò pelle. Sparì dalle strade, ma non dai bilanci. Abbandonò la strategia stragista, ma non il potere economico. Le ferite lasciate da quella guerra restano profonde. La memoria di quegli anni deve continuare a essere coltivata come antidoto all’oblio e all’indifferenza.

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